Come difendersi dalla piaga dei malware fileless

I malware fileless sono sempre più diffusi, ecco come allestire una difesa efficace.

Autore: Redazione SecurityOpenLab

Fra il 2001 e oggi gli attacchi fileless sono diventati sempre più frequenti e diffusi, e lo saranno sempre più in futuro. Nel 2017, 2019 e 2021 si sono registrati i picchi più importanti di questi attacchi, che tuttavia restano per lo più incompresi. Per questo le aziende devono implementare strumenti per rilevare gli Indicatori di Attacco, oltre a lavorare sulla sensibilizzazione dei dipendenti verso la cyber hygiene.

È Stormshield a fare il punto della situazione, partendo dalla spiegazione di base sulla natura degli attacchi fileless, chiamati anche memory-only malware, non-malware attack o zero-footprint attack. Nomi differenti per un problema univoco: i codici malevoli vengono recuperati ed eseguiti da remoto direttamente sulla memoria, senza richiedere la presenza di file intermedi locali. I comuni sistemi antimalware non intercettano nulla, perché non ci sono fisicamente malware sul sistema sotto attacco, solo comportamenti fuori dalla norma.

L’attacco tipico

La catena di attacco conta tipicamente tre fasi. Nella prima, i cybercriminali si procurano un accesso iniziale, di solito attraverso campagne di phishing e spear phishing. La seconda consiste nel rendere l’accesso permanente tramite il riavvio del computer. Questo comporta la lettura di chiavi di registro legittime da parte delle applicazioni e la loro manipolazione, in modo che contengano un codice per scaricare ed eseguire un payload come parametro di PowerShell. In questo modo i cybercriminali ottengono un accesso permanente al computer, che consente di introdurre ulteriori malware.


Nonostante questo attacco sia privo di file, lascia una traccia che lascia dietro di sé: l’URL del payload. Questo URL deve dunque essere mascherato in modo che non venga riconosciuto quale indicatore di compromissione. Il terzo e ultimo passo consiste infine nel perpetrare l’effettivo furto di credenziali, l’esfiltrazione di dati o la creazione di una backdoor.

Gli attaccanti possono anche procedere usando un programma legittimo modificato. In questo caso il malware si presenta come una utility presente nei sistemi operativi e viene quindi riconosciuto come legittimo. Ne sono un esempio certutil.exe, mavinject.exe, cmdl.exe, msixec o WMI (“Windows Management Interface”), nonché gli interpreti PowerShell e bash. Questi diversi programmi legittimi possono amplificare l’efficienza dell’attacco, poiché alcuni di essi includono intrinsecamente funzioni quali il download di file o la creazione di una connessione a un computer remoto.

Alcuni esempi reali

Il primo malware classificato come fileless risale al 2001 con il worm “Code Red”, che infettò 359.000 server web. Nei due decenni successivi il meccanismo è stato ampiamente sfruttato in ambiente Microsoft con il worm SQL Slammer, il trojan bancario Lurk, il trojan Poweliks, il worm Duqu 2.0 (che è stato persino utilizzato come toolbox per lo spionaggio informatico) e il malware PowerSniff. È però dal 2017 che si parla più spesso di attacchi tramite malware privi di file, specie da quando una vulnerabilità nel framework per applicazioni web (Apache Struts) è stata utilizzata per carpire i dati di 150 milioni di clienti dell’azienda Equifax. Nel 2018, il ransomware-as-a-service Grand Crab incluse un malware fileless tra le sue tecniche di attacco infettando oltre 50.000 computer in tutto il mondo.

Una difesa efficace

Dato che questi attacchi non sfruttano file caricati sul disco rigido, non possono essere rilevati da antivirus basati su meccanismi di rilevamento delle impronte dei file. Per contrastare i malware fileless sono stati introdotte nuove metodologie di rilevamento degli attacchi. La più comune si basa sul meccanismo di firma dei file eseguibili di Windows, che rende più difficile sostituire il file in memoria (dopo che la firma è stata validata). È una soluzione adatta per gli attacchi meno avanzati.

C’è poi l’uso delle black list, che devono includere, oltre agli elementi da bloccare, anche i pattern utilizzati, ad esempio stringhe di caratteri o comandi riconoscibili quali parte di un processo dannoso. Sono gli ormai celebri Indicatori di Attacco (IoA).


Una terza strategia è l’analisi comportamentale. Impiegata da alcune soluzioni di protezione degli endpoint, essa consente di monitorare le attività sospette, come ad esempio la connessione a un server command and control o a un IP con cattiva reputazione. Durante l’analisi si effettua anche la correlazione di azioni sequenziali, come l’uso di un motore di scripting da una riga di comando sospetta e la successiva lettura ed esecuzione di file. Anche la scoperta di incongruenze nell’uso delle utility di sistema è un forte segnale di compromissione. Tali meccanismi di analisi comportamentale consentono di rilevare se un programma sta subendo un buffer overflow o l’iniezione di codici, o se l’utilizzo di un’applicazione avviene da parte di un utente che non dispone dei necessari privilegi.


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