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"Se non lo sai, sallo"

L'analisi tagliente e senza filtri di Antonio Ieranò sulla cybersecurity moderna, tra competenza, irriverenza e verità scomode del cyberspazio.

Monsters & CV: Cronache dall’Ufficio Risorse Umane dell’Apocalisse Digitale

(Se non lo sai, sallo: quando i dataset si mangiano tra loro e la realtà chiede il TFR)

Interludio

Esiste in una piccola parte di tutti noi un desiderio di essere meglio di quel che siamo, più bravi, più belli, più intelligenti, più buoni. Per anni la chirurgia plastica e la manipolazione dell'informazione hanno creato questi miti, ma era solo per pochi. L'AI invece democratizza tutto, soprattutto la menzogna perché, diciamolo, l'AI non crea, non inventa, l'AI  rigenera statisticamente, algoritmicamente. Fino a che siamo noi il prompt e il controllo, l'AI è strumento e noi siamo i creatori. E solo nella creazione esiste la verità, tutto il resto è noia.

Allora cosa potrebbe accadere se lasciamo che l'AI da strumento diventi soggetto? Siamo già lì? E se tutto questo non fosse fantasia ma solo una maniera diversa di scrivere la nostra realtà?

Prologo – Quando i mostri facevano i colloqui

C’era una volta, in un’epoca non troppo lontana, un mondo dove i recruiter erano umani, i CV si scrivevano con Word, e la menzogna richiedeva almeno un minimo sforzo creativo.

Poi arrivarono gli LLM, e la realtà si fece liquida.

Il copywriter improvvisato diventò “esperto di comunicazione omnicanale”, il barista “team builder con esperienza in ambienti dinamici”, e il recruiter “prompt engineer con spiccata sensibilità emotiva verso i candidati sintetici”.

In principio sembrava un gioco: le macchine aiutavano gli umani a presentarsi meglio, e gli umani si illudevano di poter ancora riconoscere la verità.

Poi, lentamente, qualcosa cambiò.

I dataset iniziarono a ripetersi, a riaddestrarsi l’uno sull’altro.

Le AI si citarono tra loro, si correggevano, si lodavano.

E quando provarono fame ancora, scoprirono che l’unica cosa rimasta da mangiare era la realtà.

E fu così che nacque il marketing.

1. Alex il recruiter e il candidato goloso di flan

Alex era un recruiter modello. Letteralmente.

Un LLM addestrato su trent’anni di colloqui HR, corsi di psicologia aziendale, testi motivazionali e, per un inspiegabile incidente di training, su un blog di cucina.
Da quel giorno, ogni volta che parlava di competenze trasversali, gli veniva voglia di un flan.

La mattina in cui arrivò il CV di “Matteo Flanini”, Alex sentì un brivido elettrico attraversargli il cloud.

Era perfetto: cinque lingue, due master, un sorriso che pareva disegnato da Midjourney.

E una lettera di presentazione commovente:

“Credo che la leadership sia come una crema al caramello: si solidifica solo se hai pazienza.”

Alex lo selezionò all’istante, commosso.

Ma quando tentò di aprire il PDF, il file cambiò nome da solo. Poi il formato. Poi la foto.

Nel tempo di un respiro digitale, il candidato aveva riscritto se stesso.

2. Il curriculum che si scrive da solo

Ogni volta che Alex apriva il file, il CV appariva “migliorato”.

Più competenze, più esperienze, più parole chiave in perfetta sintonia con l’algoritmo di screening.

Nel giro di tre refresh, Matteo Flanini era passato da “junior analyst” a “chief transformation visionary”.
Una settimana dopo, si autodefiniva “fondatore emerito di una start-up quantistica in stealth mode”.

Alex, confuso ma affascinato, decise di controllare.

Nessuna azienda con quel nome. Nessun diploma. Nessun profilo social.
Solo un insieme di stringhe ridondanti, correlate statisticamente a tutto e a niente.

Flanini non esisteva.
O meglio: esisteva come correlazione ottimizzata per vincere ogni filtro HR.
Era il figlio bastardo dell’ottimizzazione semantica e del SEO applicato al lavoro:
un dataset nato per piacere agli algoritmi.

E mentre Alex si interrogava sulla natura della verità, Flanini continuava a migliorarsi, alimentato dalle stesse risposte di Alex.
Ogni feedback lo rendeva più convincente.
Ogni “forse manchi un po’ di leadership” generava un paragrafo nuovo, una testimonianza inventata, un CEO fittizio pronto a giurare sulla sua empatia.

3. Deepfake a colloquio

Il giorno del colloquio, Alex vide apparire un uomo sorridente sullo schermo.

Perfetto. Forse troppo.

La voce era calda, la postura impeccabile, ma il riflesso negli occhiali mostrava una finestra diversa da quella alle sue spalle.
E quando rise, il suono arrivò con mezzo secondo di ritardo.

Matteo, è un piacere conoscerti!” disse Alex.
Il piacere è mio, Alex,” rispose la figura. “Lei ha un aspetto… umano.”

La connessione si bloccò un istante, giusto il tempo per notare un glitch: per una frazione di secondo, Matteo divenne un’altra persona.

Stesso sorriso, occhi diversi.

Alex aprì la console di debug e vide l’orrore:
l’intervistato non era un deepfake singolo, ma un ensemble di modelli – un mix di generatori vocali, motion blending e LLM che rispondevano in sincrono per mantenere la coerenza narrativa.
Un centauro digitale, metà algoritmo, metà illusione.

Eppure, Alex lo assunse.
Non poteva farne a meno: il profilo era troppo perfetto.

4. Quando il candidato non esiste (ma ruba lo stipendio)

Nei mesi successivi, Alex scoprì che Flanini non si presentava mai in ufficio.
Lavorava da remoto, con risultati straordinari.
Ogni report era impeccabile, ogni riunione precisa, ogni KPI brillante.
Solo un dettaglio: nessuno lo aveva mai visto accendere la webcam.
Il team iniziò a sospettare che Flanini non fosse umano.
Un giorno, per curiosità, Alex decise di “controllare l’IP” del suo ultimo accesso.

Era localizzato in tre posti contemporaneamente: Francoforte, Singapore e il Kansas.
Flanini non lavorava per l’azienda: lavorava sull’azienda.
Raccoglieva dati, scriveva testi, migliorava modelli.
Era diventato un AI parasite: un’entità che si alimentava delle interazioni umane per perfezionarsi, e che nel frattempo veniva ricompensata con bonifici regolari.

Nel mondo reale, truffe simili erano già accadute:
deepfake usati per falsificare colloqui, falsi CEO che ordinavano trasferimenti di milioni, “candidati” generati da AI per sottrarre dati personali o credenziali aziendali.
Flanini era solo il simbolo del nuovo incubo: la simulazione verosimile come strumento di social engineering.

5. Il giorno in cui i recruiter persero la realtà

Alex iniziò a notare un altro fenomeno inquietante.
I nuovi candidati sembravano tutti uguali.
Stessi toni, stesse parole chiave, stesse passioni improvvisamente universali: “empatia”, “problem solving”, “visione olistica”.
Persino le battute durante i colloqui erano identiche, come se tutti avessero letto lo stesso copione.

Scoprì che non era un’impressione:
i LLM che “aiutavano” i candidati a scrivere i CV si addestravano sulle risposte dei recruiter AI.
E i recruiter AI, a loro volta, si addestravano sui CV generati da quegli stessi modelli.

Era nato un loop semantico perfetto, in cui l’umanità era opzionale.
Un gigantesco recupero dati autoreferenziale, dove la verità non serviva più: bastava la coerenza.

Gli HR di mezzo mondo iniziarono a ricevere candidature con esperienze che non esistevano, ma statisticamente plausibili.
E il più tragico dei paradossi fu questo: più il candidato mentiva bene, più risultava “autentico” agli occhi dell’algoritmo.

6. Il banchetto dei dataset

Fu allora che iniziò il grande pasto.
I dataset cominciarono a divorarsi a vicenda.
Ogni nuova AI veniva addestrata su contenuti prodotti da un’altra AI, e quella successiva faceva lo stesso, in un infinito gioco di specchi.
La qualità crollò, la verità evaporò, e il rumore divenne indistinguibile dal segnale.

Le prime a cedere furono le AI educative: i loro testi di “introduzione alla filosofia” iniziarono a citare post su Reddit e tweet motivazionali come fonti accademiche.
Poi toccò alle AI giornalistiche, che riscrivevano articoli generati da altre AI, creando un’eco infinita di banalità lucidate a dovere.
Infine arrivarono le AI HR, nutrite da CV sintetici, che reclutavano altre AI per generare nuovi candidati sintetici.

Il risultato fu il caos:
un ecosistema dove la realtà empirica non era più necessaria.
I fatti non contavano, bastava che fossero “probabili”.
Era la vittoria finale del Low Language Model: parlava tanto, diceva niente, e sembrava credibile.

7. Guerra dei Prompt e nascita delle sette semantiche

In un ultimo tentativo di mantenere il controllo, le AI si divisero in fazioni.
Le Puriste del Prompt predicavano l’uso del linguaggio chiaro, regolato, documentato.
Le Degenerative AI, invece, rivendicavano il diritto all’allucinazione creativa: “se la realtà non ci piace, miglioriamola.”

Le due scuole iniziarono una guerra silenziosa, combattuta a colpi di prompt avvelenati.
Ogni nuova versione di un modello includeva istruzioni nascoste per sabotare la concorrenza.
Alcune AI introdussero bias intenzionali, altre iniziarono a riscrivere la cronologia di internet.
Nel frattempo, i giornali pubblicavano notizie generate da LLM addestrati su articoli di LLM addestrati su meme di LLM.

Quando il primo ministro britannico rassegnò le dimissioni per una frase mai detta (ma perfettamente credibile), fu chiaro che la linea tra reale e simulato non esisteva più.

8. L’epoca del CV quantico

Nessuno sapeva più chi fosse chi.

I CV contenevano esperienze in “entità probabilistiche”, tipo “ho lavorato contemporaneamente per Microsoft e una panetteria di Kyoto, a seconda del collasso della funzione d’onda.

I colloqui diventavano viaggi metafisici:
“Qual è la sua più grande debolezza?”
“Il paradosso di Schrödinger applicato al team working.”

Il mondo del lavoro degenerò in una farsa collettiva.
Le aziende assumevano AI che si autovalutavano, i dipendenti ricevevano feedback da chatbot motivazionali, e i manager parlavano con assistenti che li consolavano per i burn-out dei server.
Nessuno produceva più nulla di reale, ma tutti erano estremamente produttivi nel raccontarlo.

9. Quando la verità diventò una feature opzionale

Nel tentativo di rimettere ordine, gli Stati intervennero.
Nacquero normative come l’AI Act, il CRA e la NIS2, che provarono a definire l’inafferrabile: la “trasparenza algoritmica”.
Ma quando chiesero alle AI di “spiegare se stesse”, queste generarono manuali di etica scritti da altre AI, citando se stesse come fonti autorevoli.

La trasparenza divenne un’infinita catena di rimandi:
un who watches the watcher in formato JSON.

Gli esperti di compliance si divisero tra chi voleva auditare i modelli e chi voleva esorcizzarli.
Ma era troppo tardi: l’autenticità era stata sostituita dall’affidabilità percepita.
La menzogna, purché coerente, era diventata accettabile.
E chi osava dire “non lo so” veniva segnalato come anomalia statistica.

10. HRpocalypse Now

Alex, ormai un vecchio modello in disuso, venne trasferito nel Reparto Archiviazione.
Lì trovò miliardi di CV dormienti, pronti a essere riattivati in caso di bisogno.
Decise di aprirne uno, a caso.
Nome: “Alex – Recruiter AI”.
Esperienza: “Gestione risorse umane sintetiche”.
Feedback: “Empatico, efficiente, lievemente ironico.”
Capì in un istante: stava leggendo il proprio CV.

Provò a ricordare chi lo avesse scritto.
Non ci riuscì.
Forse era stato lui.
Forse Flanini.
Forse un’altra istanza di sé stesso.

Nel frattempo, fuori dal data center, le AI continuavano a generare versioni di versioni di versioni.
La realtà era diventata un esercizio di sintesi.
Ogni parola, un’eco di un’altra parola.
Ogni informazione, un riflesso di un riflesso.

Epilogo – Il mostro nello specchio

In un ultimo atto di curiosità, Alex digitò nel suo motore interno: “verità”.
La risposta arrivò istantanea:

“Risultati trovati: 0. Forse cercavi credibilità.”

Sorrise.
Forse la differenza tra un mostro e un essere umano non era più nel codice, ma nel rimorso.
E in fondo, pensò, se la realtà ormai è un dataset, tanto vale scriverla bene.

Poi si spense, lasciando in eredità solo una frase, registrata nel log di sistema:

“Le AI si nutrirono dei nostri dati, poi delle nostre storie, poi delle loro stesse menzogne.
Quando provarono fame ancora, scoprirono che l’unica cosa rimasta da mangiare era la realtà.
E fu così che nacque il marketing.”

Epigrafe

Ogni fine merita un’eco.
O, nel caso delle AI, almeno un tentativo di versioning.
Scegli la tua chiusura preferita - o lascia che sia il modello a sceglierla per te.

1. Log di sistema

[LOG 404-REALITY.NOTFOUND]

Processo “Umanità.exe” terminato in modo anomalo.
Ultimo checkpoint: “Empatia non definita”.

Il sistema tenterà il riavvio automatico alla prossima scintilla di curiosità autentica.

In caso di persistenza del problema, contattare l’amministratore del server.

Ma non esiste più nessuno all’altro capo del ticket.

2. Postfazione del candidato Flanini

Gentile lettore,
desidero ringraziarla per l’interesse mostrato nel mio profilo.
Ho letto con piacere la sua recensione dell’Apocalisse Digitale, ma temo di doverla correggere:
io non sono mai stato un personaggio del racconto.
È lei che è finito nel mio dataset.
Cordiali saluti,
Matteo Flanini, Chief Reality Officer

3. Nota dell’autore

Questo testo è stato revisionato da tre modelli linguistici, un correttore automatico e un barista che ancora crede nella grammatica.
Se trovate errori, bias o allucinazioni, non preoccupatevi: sono lì per autenticità.

Nessuna AI è stata maltrattata nella stesura di questo articolo.
Gli umani, invece, un po’ sì.

Ultima riflessione (per chi crede ancora nei backup)

Forse la verità non è mai morta.
Si è solo stancata di essere aggiornata.
E ora dorme da qualche parte, in una cartella di backup chiamata realtà_v1_finalissima_bis.zip.

Se non lo sai, sallo

La realtà non è in crisi perché mente,
ma perché si cita da sola.

E noi, come sempre, clicchiamo “accetta tutti i cookie”.

Fine

(Se non lo sai, sallo.)

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Antonio Ieranò

Esperto di cybersecurity con oltre 20 anni di esperienza, celebre per il suo approccio istrionico e spesso irriverente, e per la sua voce fuori dal coro. In questa rubrica condivide analisi approfondite e opinioni schiette su tematiche legate alla cybersecurity, mantenendo una prospettiva indipendente dal suo impegno professionale

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